Poveri ed indifesi marginali sociali furono sempre vittime del fanatismo che pretendeva di combattere il demoniaco sopprimendo con la forza presunti ‘stregoni’.
A metà Ottocento, nel libro di Antonio Peretti “Le serate del villaggio ossia degli errori e pregiudizi del popolo di campagna” stampato ad Ivrea dalla Tipografia Curbis veniva rievocato “un fatto avvenuto in un piccolo paesello della Valsesia: il quale prova come sia radicato nel volgo il pregiudizio delle streghe e come esso talvolta snaturi la naturale bontà del popolo di campagna. Ecco il fatto. A ricordo di un vecchio, che mi narrò queste cose, viveva a Cervarolo una povera donna, i cui aspri modi, la voce rauca e il viso guasto dagli anni non erano certamente i mezzi più acconci per guadagnarsi l’altrui simpatia. Cadde in sospetto di strega; qualche sgraziato accidente parve dar credito a questa voce; e nulla è più fecondo della popolare immaginazione, quando è messa in moto. In un istante si levarono accuse contro l’infelice, e chi l’avea veduta di notte in mezzo alle vampe, chi levarsi in aria a cavalcioni di un grosso capro; a chi pareva d’averla sorpresa in atto di gettare le sorti, a chi nel momento di succhiare il sangue di un bimbo che essa aveva rapito in paesi lontani. Avvenne un giorno che due contadini della terra stavano contrastando fra loro sotto una quercia di confine di cui l’uno e l’altro dicevasi possessore. Vi capitò per terza la vecchia, la quale pure metteva in campo ragioni su quella pianta; e inasprendosi, come suole in siffatti casi, la disputa per le acerbe parole dei contendenti, la misera donna trasportata dall’ira, si lasciò sfuggire queste insane parole: “Possiate morire entro l’anno am[b]edue”. Guardate fatalità ! Non molto dopo uno di quei due contadini essendo montato sull’albero in questione, cadde dall’alto e si ruppe il collo; un mese dopo l’altro morì di malattia naturale, e così dentro l’anno si avverò la terribile imprecazione della strega supposta. L’indignazione allora fu generale: uomini, donne, vecchi e fanciulli corsero in furia alla casa dell’infelice, e ne fecero orrenda carnificina. Così essa pagò crudelmente la pena della sua imprudenza; giacchè durante il processo anche gl’illusi suoi compaesani vennero in chiaro della falsità delle accuse che le erano apposte; ma i giudici stessi non osarono di colpire con tutto il rigore della legge gli autori di quel misfatto, mentre anche questi accecati da un pregiudizio funesto, erano stati vittime della popolare ignoranza”.
La ricostruzione della vicenda giudiziaria é stata fatta da Caterina Triglia nello studio “La strega di Cervarolo” edito da Corradini nel 1983.
Quella della povera donna valsesiana non fu l’ultima tragedia del pregiudizio e della superstizione contro persone ritenute succubi d’influenze demoniache.
Nei primi anni del governo di Mussolini un povero montanaro di Valmozzola nel Parmense venne ucciso brutalmente in un agguato e bruciato vivo.
Fu l’ultima vittima della superstizione e dell’ostilità popolare contro personaggi ritenuti pericolosi per l’ostentazione di presunti poteri psichici o fascinatori.
I giornali dell’epoca minimizzarono il movente del delitto, riducendolo ad un maldesto tentativo di furto, scrivendo soltanto che il Berti “godeva di grande popolarità fra i montanari del suo paese che lo consideravano capace di guarire ogni male con intrugli di erebe. Portava i capelli lunghi, la barba riccia e bianca, gli abiti poveri. Lo si incontrava per i sentieri della montagna, mentre andava alla ricerca di quelle erbe che dovevano costituire tutta la sua inutile ricchezza da anni accumulata fra gli stenti.
Il Berti era riuscito a crearsi una fama così vasta che eccedeva i limiti modesti della sua terra. I suoi clienti erano numerosissimi e perciò egli era da tutti ritenuto un danaroso. Era un misantropo che viveva solo, appartato, a breve distanza dalla casa in cui abitava il nipote.
Quando il giovane Berti si recò nella capanna dello zio si trovò dinanzi ad uno spettacolo racapricciante. Il vecchio giaceva a terra con il corpo bruciacciato e con il capo, avvolto nel mantello che usava portare ogni giorno, schiacciato sotto una grossa pietra dal peso di circa 20 chilogrammi”.
Poche settimane dopo questa tragedia, un’anziana di Scarperia, tale Maria Giuntini più nota come “la Strega” si toglieva la vita credendo di essere posseduta da forze malefiche.
Il 16 luglio del 1926, il quotidiano di Mussolini, all’epoca uno dei giornali più letti e diffusi, dette notizia di un “Feroce delitto della superstizione” avvenuto a Nereto, in Abruzzo dove il macellaio Giuseppe Domizio confessò di aver ucciso i coniugi Emilio Azzurri ed Innocenza Parioli convinto da uno “Stregone” di Bellante che essi avessero fatto ammalare il suo figlioccio, gettandogli addosso il ‘malocchio’. Ossessionato da quel terribile sospetto, l’uomo “per salvare da morte certa il figliastro” decise di sopprimere i due malcapitati, si armò di un robusto coltellaccio, s’introdusse di notte in casa loro e li uccise senza pietà.
Nel 1933 la Corte di Cassazione esaminò un ricorso per una condanna di tale Calogero Matina che “s’indusse ad uccidere con la cooperazione del cugino Casà Calogero, lo zio Matina Melchiore, in quanto ossessionato dalla convinzione che questi, per effetto di stregoneria fosse stato la causa della morte del padre”. La sentenza di primo grado aveva riconosciuto che “nella famiglia Matina era radicata la convinzione che lo zio era dedito alla stregoneria” perciò il giovane era stato indotto al delitto sotto la spinta di fallaci credenze”.
Nei primi anni del Novecento, nelle Langhe un povero girovago, un ragazzo che viveva d’espedienti rimediando lavori precari e saltuari nelle cascine sarebbe stato preso di mira come autore di “mascherie” e ritenuto colpevole d’inquietanti fenomeni soprannaturali che spaventavano a morte l’intera Val Granda. Contro questo disgraziato si sarebbe accanito “un gruppo di esagitati” che, ben determinati ad eliminarlo, lo avrebbe “legato ad un salice ed ammazzato di botte”, seppellendolo poi di nascosto nel cimitero di Treiso.
Una sessantina di anni fa, a Magliano Alfieri sarebbe stato ucciso uno stregone, “un mascone o presunto tale” ed il delitto sarebbe poi stato “tacitato tra la connivenza generale”.
L’omicidio d’una povera donna accusata di ‘mascherie’ venne scoperto il 6 dicembre 1946 in Valsusa, quando, avvertiti telefonicamente, i Carabinieri di Oulx scoprirono nascosto in mezzo ad un bosco il corpo senza vita di Teresa Marchino che fin dal loro primo rapporto definirono “fattucchiera”. Causa del decesso profonde ferite d’arma da taglio al capo della sfortunata, provocate da violenti colpi di scure.
Subito si autoaccusò del delitto una povera valligiana, tale Silvia S[...] che sostenne d’averla uccisa quattro giorni prima, di notte, in casa sua dove l’ospitava da qualche tempo nel corso d’una violenta colluttazione, agendo sotto l’impulso incontrollabile di una misteriosa, malefica ed arcana “tentazione diabolica”.
L’inchiesta appurò che l’anziana Marchino saliva in Valsusa dal Canavese per raccogliere erbe medicinali ma al contempo praticava in casa di Silvia misteriosi riti noti a lei sola: curava con impiastri che applicava sul cuore e sul ventre, tracciava sui malati segni di croce “con un suo speciale arnese” pronunciando formule incomprensibili e somministrava decotti, assicurando che “un diavolo caccia l’altro”, invitando i montanari a credere soltanto in lei.
Convinta dei suoi poteri salvifici, Silvia le aveva affidato il figlio infermo, certa che i malori fossero causati dalla presenza in casa propria di “spiriti che la travagliavano”. Constatando però che il giovane peggiorava sempre di più, s’era convinta che per salvarlo era necessario eliminare la Marchino, “perchè temeva che facesse più del male che del bene al proprio figlio”. Spinta da un impulso violento, irrazionale ed irrefrenabile, le ruppe il capo colpendola ripetutamente con l’accetta e ne nascose il corpo.
Rinchiusa in carcere, Silvia chiese insistentemente l’aiuto della Chiesa perchè convinta d’avere gli Spiriri maligni in corpo e non ebbe pace finchè il cappellano del carcere di Torino, benedicendola, allontanò il demonio che la possedeva e si manifestava come un corpo estraneo “che stava in gola e non riusciva a mandare in su e in giù”.
Processata dalla Corte d’Assise di Torino, il 18 gennaio 1949 la povera contadina Silvia venne condannata a 9 anni e 6 mesi di reclusione che scontò in gran parte in una casa di cura.
Morì nel 1953.
I giornali dell’epoca dettero ampio risalto al processo dell’“assassina della maga”, dell’“ossessa posseduta dal demonio” e riportarono il suo sconvolgente racconto della notte del delitto, quando “nel fuoco delle erbe si udirono i gemiti dei bimbi”.
Nella sentenza, i Giudici certificarono a tutte lettere che la vittima era “dedita alle pratiche di medicastra fattucchiera”.
L’ultima strega.
Saremo grati a chi vorrà segnalarci realtà analoghe a quelle esaminate in questo articolo scrivendo a storiaribelle@gmail.
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