(Adnkronos) - Otto duplici omicidi. Sedici vittime. Un'unica arma: una calibro 22 con proiettili Winchester serie H, mai ritrovata. E un'eco di terrore che ha attraversato quasi vent'anni, dal 1968 al 1985, squarciando il cuore della Toscana e lasciando una ferita aperta nella coscienza collettiva italiana. Da questo scenario prende le mosse "Il Mostro", la serie Netflix diretta da Stefano Sollima - al debutto il 22 ottobre - che tenta di raccontare il caso più enigmatico e disturbante della cronaca nera italiana: quello del cosiddetto 'Mostro di Firenze'.
Un'opera di finzione, certo, ma anche un ambizioso tentativo di rievocare una delle inchieste più controverse della storia giudiziaria del nostro Paese, ancora oggi senza un volto certo né una verità definitiva. Ed è proprio sul confine sottile tra fiction e realtà che si muove la riflessione di Stefano Brogioni, giornalista de "La Nazione", specialista di cronaca nera e giudiziaria, autore del libro "Il mostro nero. Gli anni dei delitti di Firenze" (Intermedia Edizioni, 2021), profondo conoscitore di ogni snodo dell'indagine.
"Non so se la pista sarda, a suo tempo battuta dagli investigatori, sia quella giusta. Di sicuro, a prescindere dalla convinzione di ognuno, chi affronta la storia dei delitti del Mostro di Firenze deve per forza confrontarsi con il delitto del 1968. Perché delle due, l'una: o l'assassino già allora è colui che diventerà poi il Mostro, oppure nel 1982, quando venne effettuato il collegamento a ritroso da parte dei carabinieri, c'è stato un raffinatissimo depistaggio", spiega Brogioni in un'intervista all'Adnkronos.
Secondo Brogioni, il vero spartiacque resta proprio il duplice omicidio di Signa, quello in cui perse la vita Barbara Locci, mentre suo figlio Natalino Mele fu ritrovato vivo ore dopo. Un delitto che oggi si arricchisce di un dettaglio tardivo ma potenzialmente sconvolgente: Natalino, ha rivelato una recente inchiesta, non sarebbe figlio di Stefano Mele ma di Giovanni Vinci, figura mai indagata a fondo all'epoca. "E' una novità che arriva purtroppo tardi, quando temo che si possa fare poco o nulla. La persona è morta ormai tanti or sono, e nel pieno della 'pista sarda' la figura di Giovanni Vinci non è mai stata approfondita come lo sono state invece quelle dei suoi fratelli, Francesco e Salvatore. In una storia dove ancora non conosciamo tanti elementi, a cominciare dalla pistola calibro 22 che ha sparato, non aver investigato su chi avrebbe potuto anche astrattamente avere un movente per uccidere Barbara Locci e salvare il bambino, rappresenta un altro vuoto".
"D'altronde, ancora oggi non è chiaro come e perché dopo quattro delitti del Mostro, ci si ricordi di quel precedente di 14 anni prima - spiega Brogioni - Lo stesso magistrato Pier Luigi Vigna anni più tardi interrogò tutti i carabinieri protagonisti di questa 'illuminazione' e il racconto consegnato alle carte, cioè che un maresciallo si era ricordato di quello che era avvenuto a Signa, cozza con l'assoluta assenza di annotazioni di servizio che invece avrebbero dovuto essere redatte quando venne richiamato il vecchio fascicolo Mele, dove c'erano ancora i bossoli che permisero l'attribuzione alla stessa calibro 22 anche di quel duplice omicidio. La ricostruzione ufficiale mi sembra più orientata a coprire una soffiata di qualcuno che andava coperto e che per motivi che non conosciamo non doveva essere rivelato".
Ed è qui che si innesta il tema dell'arma: la famigerata Beretta calibro 22, mai ritrovata. Nella sentenza Pacciani si sostiene che sia passata di mano. Ma Brogioni è dubbioso: "Nonostante sia scritto nella sentenza Pacciani, non credo che l'arma sia passata di mano. Piuttosto mi chiedo se il Mostro fosse un qualcuno o un 'qualcosa'".
Una riflessione che porta la vicenda su un piano più ampio, quasi politico. Un'ombra lunga, più simile a una strategia del terrore che a un caso di serial killer isolato. "Non dimentichiamoci gli anni in cui ha colpito, una stagione terribile per il nostro Paese. E anche quella del Mostro è stata una strage, anche se diluita negli anni - sostiene il giornalista fiorentino - E sicuramente il Mostro è stato un terrorista: i giovani non si appartavano più per paura, ha cambiato le abitudini della società dell'epoca in una vasta porzione dell'Italia. I genitori, anche se per la mentalità dell'epoca non erano d'accordo, aprivano le case ai figli anche per relazioni 'non ufficiali'".
Una stagione che si tinge ancora più di mistero quando, nel 1993, vengono ritrovati proiettili Winchester calibro 22 in un arsenale clandestino, custodito in un'ex sede del Sismi nel centro di Firenze. "La scoperta mi fa pensare che dietro ai delitti ci sia molto altro", osserva Brogioni.
E i 'compagni di merende Pacciani, Lotti, Vanni? "Fatico a vedere i compagni di merende nel ruolo che gli è stato attribuito nelle sentenze. E trovo incredibile che tre soggetti in quel modo possano aver tenuto in scacco gli inquirenti per anni - sottolinea Stefano Brogioni - Certo, su Pacciani ci sono alcuni aspetti molto sospetti: la sua storia calza perfettamente sulla 'geografia' del mostro, era nato in Mugello e si è spostato in Val di Pesa, praticamente i due epicentri del serial killer. Così come aveva effettivamente tanto denaro a disposizione, anche se era una persona di un’avarizia incredibile. Quei soldi però potrebbe averli incassati per un altro suo contributo, o per il suo silenzio".
E se si abbandonasse l'idea che dietro il 'Mostro' ci sia un solo volto? "Se ci liberiamo di una narrazione consolidata di un unico serial killer, si può pensare anche che non sia stata sempre la solita persona a uccidere - ipotizza Brogioni - Le pause fra un delitto e l'altro, le differenze tra un delitto e l'altro, mi fanno pensare anche a più soggetti, magari accomunati da un legame 'segreto'. Tante persone che sono state indagate in questa vicenda hanno in comune un orientamento sessuale diciamo 'non ordinario' per i canoni della società di quegli anni".
E oggi? C'è ancora speranza di chiarire il mistero del killer delle coppiette? "Una svolta? Di nuovi elementi ne sono stati acquisiti tanti dalla Procura in questi anni, solo che non è mai arrivato quello decisivo - argomenta Stefano Brogioni - Il tempo è passato, tante persone che potevano sapere o parlare non ci sono più. A questo punto una svolta può arrivare soltanto da un Dna recuperato da reperti che la Procura sta continuando a cercare. E se quel Dna fosse di qualcuno dei 'noti', darebbe forza alla verità giudiziaria o almeno ad alcune delle piste battute. Altrimenti, la indebolirebbe ulteriormente".
"Il Mostro", la serie Netflix, riapre una ferita mai chiusa, riportando al centro del discorso pubblico non solo un caso giudiziario, ma un trauma collettivo. Come ipotizza Brogioni, forse il 'Mostro' non è stato solo un uomo. Forse è stato 'un fantasma collettivo'. E finché quel Dna non parlerà, resterà tale. (di Paolo Martini)