Mara Viganò e Paolo Montini non erano nuovi alla vita di rifugio. Entrambi avevano già vissuto esperienze in quota, in luoghi diversi, ma quando hanno partecipato al bando del CAI per la gestione del Rifugio Monte Barone, qualcosa è cambiato.
Sarà stata la posizione isolata, l’ambiente ancora selvaggio, la vista che abbraccia la pianura e la valle… ma quel rifugio a 1.587 metri ha catturato il loro cuore. Se ne sono innamorati, come si fa con certe cose che senti subito giuste.
Nemmeno la pandemia li ha scoraggiati. Durante il Covid, quando tutto era fermo e il rifugio chiuso, hanno passato le giornate in silenzio, sistemando, pulendo, curando ogni dettaglio, aspettando tempi migliori. E nemmeno quando, all’inizio della loro avventura, sono rimasti bloccati con tre metri di neve davanti alla porta, e hanno dovuto essere recuperati da un elicottero, hanno pensato di mollare.
Sette anni dopo, l’entusiasmo è ancora lo stesso.Ma oggi, a quell’entusiasmo si è aggiunta una grande consapevolezza: quella di avere una responsabilità.
Gestire un rifugio non è solo offrire un piatto caldo o un letto dove dormire. È molto di più.
È accogliere chi arriva stanco dalla salita e fargli trovare un ambiente pulito, caldo, casalingo.
È fare in modo che ogni ospite si senta a casa, anche a quasi 1600 metri d’altezza.
Il Rifugio Monte Barone è raggiungibile in circa due ore, con due sentieri panoramici che regalano scorci mozzafiato. E lì, ad attendere chi sale, ci sono loro: Mara e Paolo, con la loro passione per la montagna, la loro capacità, ma soprattutto con un amore profondo per il territorio.
Quel territorio che non vogliono cambiare, né snaturare, ma preservare così com’è: autentico, essenziale, vero.
Perché la vita da rifugio, per Mara (biellese) e Paolo (valsesiano), non è solo una scelta di lavoro.
È uno stile di vita. Un modo per condividere qualcosa di raro.
Un invito, silenzioso e potente, a rallentare, a salire, a scoprire.
E a sentirsi parte di un luogo unico.