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Copertina | 03 ottobre 2025, 00:00

Alessandro Orsi, una vita per la scuola e per la memoria

Alessandro Orsi, una vita per la scuola e per la memoria

Alessandro Orsi, una vita per la scuola e per la memoria

Alessandro Orsi è una figura di riferimento per il mondo dell’educazione e della cultura valsesiana. Classe 1949, originario di Crevacuore, per oltre quarant’anni ha servito la scuola come insegnante e poi come dirigente scolastico dell’Istituto Alberghiero “G. Pastore” di Varallo Sesia, trasformandolo in un’eccellenza a livello nazionale e internazionale.
Cultore della memoria storica, appassionato di cultura, musica, montagna, oggi continua a diffondere conoscenza, educazione e senso civico. Con lui parliamo di scuola, territorio, storia, giovani e futuro.

L’educazione prima dell’istruzione

Professore Orsi, lei ha spesso detto che “prima di essere insegnanti, si è educatori”. Cosa significa oggi, in concreto, essere educatori in una scuola che cambia così velocemente?

L’educazione viene dal latino educere, tirar fuori. Significa soprattutto costruire una base per l’alunno: valori civili, rispetto per compagni, insegnanti, comunità. Solo su queste fondamenta può partire il percorso di istruzione. Oggi, purtroppo, vediamo una caduta di valori: sono scomparse forme di socialità che insegnavano il rispetto delle regole, come oratori e associazioni. È venuto meno anche l’insegnamento della storia, e questo impoverisce i giovani. Essere educatori oggi vuol dire ridare centralità a questi valori.

Lei ha guidato per 21 anni l’Istituto Alberghiero di Varallo, triplicandone gli iscritti e aprendolo al mondo. Qual è stato, secondo lei, il segreto di questo successo?

Quando sono arrivato, l’istituto contava meno di 400 iscritti ed era in difficoltà. Abbiamo scelto di aprirci al territorio, coinvolgere le famiglie, creare più di 100 progetti e attivare rapporti con una ventina di Paesi nel mondo. Ogni giorno i ragazzi cucinavano 250 pasti completi, imparando sul campo la loro professione. Tutto questo è stato possibile grazie a un corpo docente motivato e a personale che ha creduto nel progetto. Non è stato facile: abbiamo superato una burocrazia ostile e resistenze politiche, ma alla fine i nostri studenti sono diventati professionisti ricercati in tutto il mondo.

La didattica inclusiva da lei promossa – in particolare per studenti disabili e stranieri – è ancora oggi considerata un modello. Qual è stata la chiave per superare pregiudizi e creare integrazione autentica?

Negli anni ’90 portare in un istituto professionale ragazzi con disabilità non era scontato: molti ritenevano che non potessero lavorare in cucina o in sala. Abbiamo dimostrato il contrario: con docenti tenaci e coraggiosi, abbiamo creato un progetto che ha visto oltre 100 studenti con disabilità integrati e oltre 30 insegnanti di sostegno. Lo stesso vale per i ragazzi stranieri, provenienti da oltre venti Paesi. In cucina e in sala si imparava insieme: la pratica annullava barriere linguistiche e pregiudizi. Oggi mi commuovo quando incontro ex studenti disabili che lavorano dignitosamente in mense, ristoranti, case di riposo. Significa che quella battaglia è servita.


Scuola e lavoro, ieri e oggi

Durante il convegno “La scuola che vorremmo” ha criticato il sistema di reclutamento dei docenti tecnico-pratici. Quel problema è ancora attuale?

Sì, oggi più che mai. A volte arrivano in cattedra giovani di 22-23 anni senza esperienza di lavoro reale: non hanno alle spalle né pratica né strumenti pedagogici adeguati. Gli studenti li rispettano meno. Sarebbe necessario prevedere anni di esperienza nei ristoranti o nelle aziende prima dell’insegnamento, così come per i docenti di sostegno servirebbe un periodo formativo in associazioni come ANFFAS. Solo così si acquisiscono le competenze umane e professionali necessarie.

Lei ha parlato con passione della cosiddetta “terza area”. Oggi esiste il PCTO. Cosa manca secondo lei per rendere davvero efficace il rapporto tra scuola e mondo del lavoro?

La scuola ha ancora paura di aprirsi al mondo esterno, temendo che i ragazzi vengano sfruttati. Al contrario, il lavoro teme che la scuola non prepari adeguatamente. Servono intermediari autorevoli che creino ponti reali. La “terza area” era un modello: professionisti qualificati entravano in classe e i ragazzi imparavano il mestiere direttamente. Oggi dobbiamo superare diffidenze reciproche e ripristinare questo dialogo.

Gli istituti alberghieri sono spesso in prima linea contro la dispersione scolastica. Come si può motivare un ragazzo che arriva da una situazione difficile o svantaggiata?

Bisogna capire da dove viene e quali sono i suoi talenti. Molti ragazzi non sono portati allo studio tradizionale, ma hanno abilità manuali straordinarie. Compito dell’insegnante è tirarle fuori e affiancarle a valori civili. Certo, con classi da 25-26 studenti e centinaia di ragazzi da seguire diventa difficile. Per questo servirebbero classi più piccole. Ma un buon insegnante non può limitarsi a “fare lezione”: deve ascoltare, capire, sostenere. Non tutti, purtroppo, sono disposti a farlo.


La Valsesia, il territorio, la memoria

Oggi si occupa di storia, turismo, cultura. Cosa la spinge ancora a raccontare e valorizzare la Valsesia?

La Valsesia è casa mia: ho radici a Crevacuore, Cellio, Varallo. Ognuno dovrebbe sentire il dovere di raccontare la propria terra. Per questo ho contribuito a creare a Borgosesia la Consulta della Cultura, che unisce associazioni e progetti. Credo che la cultura sia trasversale e che la valorizzazione del territorio non abbia colore politico. È uno strumento per tutti.

Nel libro dedicato alla Casa di Riposo Sant’Anna ha scritto una frase molto significativa: “Le rughe della vecchiaia formano le più belle scritture della vita…”. Cosa ci insegnano gli anziani oggi, secondo lei?

Gli anziani sono memoria vivente. Raccontano com’era la Valsesia un tempo, portano con sé esperienze di guerra, sacrificio, resilienza. Dovrebbero essere ascoltati dai giovani, che da loro possono imparare lezioni di vita autentiche. Ogni storia è un insegnamento che arricchisce.

È presidente dell’ANPI a Borgosesia. Che ruolo ha oggi la memoria della Resistenza nel dialogo con i giovani?

La Resistenza è alla base della nostra Costituzione, della libertà e della democrazia. Raccontarla ai giovani significa trasmettere valori civili fondamentali. Purtroppo spesso sono distratti da social e telefonini, ma bisogna insistere: guai a dimenticare le tragedie vissute dalla nostra terra. In Valsesia, medaglia d’oro della Resistenza, ci sono lapidi e monumenti che parlano da soli. Portare i ragazzi davanti a quei nomi significa ricordare loro che la libertà di cui godono è stata conquistata da ventenni che hanno dato la vita.


Passato e futuro

Lei è stato un testimone attivo di decenni di trasformazioni scolastiche. Quali valori dobbiamo assolutamente trasmettere alle nuove generazioni?

Il rispetto, la responsabilità, la memoria. Nel mio ultimo libro, “Le urne dei forti”, ho raccontato la storia dei monumenti ai caduti: non sono solo pietre, ma simboli di ragazzi che hanno sacrificato la vita per la nostra libertà. Portare i giovani a riflettere su questi luoghi significa educarli a capire il valore della democrazia.

Se oggi dovesse parlare a un giovane preside al primo anno di incarico, che consiglio gli darebbe?

Conoscere bene i propri insegnanti, costruire uno staff affidabile e soprattutto conoscere i ragazzi. Io ricevevo tutti, cercavo di imparare i nomi di 1200 studenti. Essere dirigente non significa chiudersi in ufficio, ma essere presenti, visibili, ascoltare. Questo è il vero mestiere del preside.

E invece, se avesse davanti uno studente spaesato, che non sa “cosa fare da grande”, cosa gli direbbe per aiutarlo a trovare la sua strada?

Gli direi: credi in te stesso. Molti giovani hanno problemi di autostima. Bisogna dialogare con loro, capire cosa piace davvero: letteratura, cucina, sport. Il dialogo è la chiave. Solo ascoltandoli si possono aiutare a trovare la loro strada.


Conclusione

Lei ha ricoperto tantissimi ruoli: docente, preside, scrittore, storico, cittadino impegnato. Oggi, cosa sente ancora di voler realizzare o trasmettere?

Vorrei continuare a stare con i ragazzi. Ancora oggi vengo chiamato a fare conferenze sulla memoria storica e ogni volta imparo da loro. Collaboro con ANFFAS per progetti di inclusione, continuo a occuparmi di cultura e di storia. E poi, tra le mie passioni, ci sono la montagna e lo sport: sono stato alpinista, escursionista, persino in Nepal a costruire una scuola a 3400 metri. Mi piace pensare che, finché avrò energie, potrò trasmettere entusiasmo, conoscenza e speranza, anche alla mia nipotina, che spero sappia ascoltare almeno un po’ delle mie parole.

Redazione

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